Quentin Blake per Mathilda di Rohald Dahl

martedì 19 settembre 2017

Felicità






«Sulla felicità avrei molto da dire. Per questo ho scritto un libro» dichiara Marika Borrelli e, nel suo #Felicità, si possono davvero scoprire molte declinazioni del termine, citazioni filosofiche dagli stoici, epicurei e cinici, incursioni nella meccanica quantistica, sconfinamenti nella musica leggera e contaminazioni interculturali. E poi liste di consigli, suggerimenti, rimedi per la (rin)corsa verso questa specie di Santo Graal della nostra epoca.
Che sia un polpettone, un pamphlet come ce ne sono tanti in circolazione su un tema modaiolo, «un’ossessione ricorrente, specialmente giornalistica, specialmente estiva»?
No, non ne sarei arrivata al termine perché frequento altre letture, è piuttosto un libro spassoso, e sottolineo spassoso, che racconta e racchiude una disamina per nulla superficiale sulle credenze, anche contraddittorie, intorno a un argomento tipico della nostra società, più o meno benestante, annoiata, ansiosa.
Ma dove si trova o si potrebbe trovare la felicità per l’autrice? Semplice, nelle piccole cose, come scrive Lou Marinoff nel suo Platone è meglio del Prozac ed è anche inutile cercare una definizione esaustiva di felicità perché essa «assume tanti aspetti quante le antropologie e le filosofie umane». Pertanto ai Norvegesi sembra tale lo utepils (bere una birra molto ghiacciata); per i Tedeschi è la Heimat (l’attaccamento orgoglioso alle proprie origini geografiche); i Filippini la chiamano gigil (pizzicottare qualcuno per gioia/amore/affetto) e i Danesi hanno l’higge, diventato fenomeno di costume esportato dai media. Si pronuncia /hiùgaal/ precisa Borrelli, con l’h aspirata e significa comodità, uno stile di vita felicitante che prevede coccole, babbucce di lana, caminetti accesi e candele profumate. Ma anche l’higge ha il suo lato oscuro quando allontana originalità e creatività come se fossero minacciose e, per noi italici, abituati a sole e luce, l’autrice ne vede l’applicazione solo «nei giorni di neve o di grandi e fredde piogge».
Molto diversa l’accezione di felicità che si evince da Kant, come di “dovere” e quella di Schopenauer, come “chimera” perché solo sofferenza e dolore sono reali, per tacere di Aristotele «per il quale l’assenza di dolore è già felicità, anzi è l’unica felicità».
La sag(r)a di Borrelli, lei stessa gioca sul termine, si sviluppa in sessantotto capitoli, accostando, tra l’altro, anche la social-felicità, ovvero il rispecchiamento nei social network, dove è obbligatorio sembrare felici, perché l’infelicità è contagiosa e più difficile da gestire. E ammonisce Seneca: «Nessuno è infelice se non per colpa sua», nella sua visione è contemplato il raggiungimento in solitaria della suddetta, quasi fosse una cima, «praticando virtù ed eliminando i desideri», con l’aggiunta dell’atarassia, ovvero la sospensione del giudizio, senza il quale non ci si impegola in complicazioni che minano la nostra serenità.
Sembra prevalere, secondo l’autrice, una concezione “proprietaria” della felicità, o “euforica”, secondo la quale «si è felici se si ha/ottiene qualcosa», invece lei ci propone  un rovesciamento: considerarla sotto forma di senso e significato, differenziando tra quella “edonistica”, o del piacere personale, ed “eudaimonistica”, che implica vivere bene con gli altri. «Felicità come fiume significa che esiste ed esisterà un flusso (variabile) in cui essere immersi». E poi «fare è essere […] L’abilità in qualcosa porta felicità, e l’attività produttiva rende una soddisfazione immediata, come fare marmellate, palleggiare a basket, o coltivare zucchini». Mentre il «non saper fare o il non sapere tout court conduce a una perdita di controllo […] sulle cose» e produce «ansia e inquietudine».
Ammessi gli errori perché «sbagliare è un dono prezioso», ma le «scuole italiane non rendono felici. Non gli studenti, tantomeno gli insegnanti», a differenza del modello scolastico finlandese, improntato a considerare la scuola «il posto dell’anima».
Anche il lavoro, di per sé, non assicura automaticamente la felicità, ci sono mestieri più “comburenti” di altri (nel senso del burn out) e poi c’è la faccenda di quanto si guadagna, ma la via d’uscita potrebbe essere reinventarsi un altro se stesso: Franz Kafka era un assicuratore, per esempio, Einstein lavorava all’ufficio brevetti. Del resto non era Aristotele che affermava: «lo scopo del lavoro è semplicemente quello di guadagnarsi il tempo libero»?
Praticamente, per orientarsi nella baraonda di tendenze, concezioni, mode e guru del caso, Borrelli salva sempre e comunque l’ironia «non il sarcasmo», perché «la felicità intesa come obiettivo è un disastro» quindi il consiglio è di lasciare  che le cose capitino e «never feed the trolls», cioè non curarsi troppo dei giudizi negativi, che “infelicitano”.
Non paia una sintesi semplicistica, au contraire l’autrice squaderna una miriade di possibilità e itinerari, lasciando trapelare molte possibilità di riflessione, a seconda dei propri valori di riferimento.
Quanto al cibo, non nega che abbia molto a che fare con la felicità «perché è un efficace antidepressivo». In proposito, ci confessa un suo dubbio amletico circa la torta di mele (!). Si chiede, in buona sostanza, quale sia “la” torta di mele per eccellenza: quella “sgonfiotta” di Nonna Papera (apple pie), l’impasto onnicomprensivo tipo ciambellone con le mele tagliuzzate dentro, oppure la pasta frolla ricoperta di mele e gelatina?
Non mi intendo di felicità, almeno non nel senso colto dell’autrice, ma sulla torta di mele la so lunga e posso azzardare che vanno bene tutte, e tutte possono fregiarsi del nome “torta di mele”, a seconda dei gusti, dell’umore e dell’abilità di chi le prepara. Proprio come suggerisce l’autrice tante sono le strategie per inseguire, riconoscere e godere della felicità.

#Felicità, Marika Borrelli, L'Iguana Editrice, 2017.

pubblicato su 
Leggere Donna n°177/2017

https://cartesensibili.wordpress.com/2017/11/28/lauradeilibri-laura-bertolotti/



mercoledì 13 settembre 2017

La città interiore



Un libro labirintico, a dir poco, facile perdersi nella ridda di nomi, utile rileggere e soffermarsi ne La città interiore di Mauro Covacich, finalista nel Premio Campiello 2017.
Romanzo? Forse. Lo definirei narrazione non narrativa di incontri avvenuti  in un tempo altalenante fra ieri e oggi, un secolo fa e ancora prima. Il nonno e il padre, gli amici, la nonna e la mamma «Quando mia madre è rimasta vedova era ancora identica alla ragazza del Paradiso, poi sono venuti a visitarla i fantasmi e la ferma decisione di invecchiare un anno al giorno». Gli studi, esilarante l’episodio del suo mancato esame con Magris. E poi la foiba.
La città interiore è davvero un viaggio nel rimosso e rimovibile di ognuno di noi, sicuramente dell'autore, che ci traghetta in un angolo di mondo percorso da confini tracciati con la matita e il sangue delle guerre. Usa una lingua sapiente, ma apparentemente dimessa, richiamandosi alla letteratura minore, come è stata definita da Gilles Deleuze e Félix Guattari, nel senso di far un uso minoritario di una lingua maggiore. Covacich ricorda Kafka, che scriveva in tedesco, in un paese di parlanti il ceco, e Svevo, che scriveva in italiano ma parlava italiano nella vita di tutti i giorni.
«Anche quando trovi casa nella scrittura, la lingua in cui scrivi è lì a rammentarti che non sei a casa tua. È un disagio di cui però puoi far tesoro. Vivere la sensazione vaga e persistente di essere un intruso nel proprio cervello».
Falsa modestia? No, asciuttezza triestina, direi. Certo è che l’equilibrio del racconto tra narrazione storica e ricordo/impressione personale non viene mai meno. La sensazione prevalente è di un’armonia che connette immaginazione e memoria, che si tratti dell’appartamento in ristrutturazione, del viaggio, degli incontri. Su tutto, come un centro gravitazionale, Trieste, da cui i triestini,  le identità confuse, celate, sconosciute, la Slovenia e la Croazia.
«Noi apparteniamo alla gente germinata nei conglomerati di periferia-non alveari, bensì termitai […]. Quartieri distanti uno sputo dal centro, eppure inesorabilmente consegnati a un’altra visione del mondo […] i miei compagni di classe e di università, che avevano sempre un nonno che parlava con naturalezza in greco o in tedesco […]. Ragazzi col doppio cognome, spesso di origine ebraica, che vivevano in via Rossetti o sul colle di S. Vito e nei loro appartamenti pieni zeppi di libri avevano la stanza per la domestica. E in casa parlavano in lingua, come ancor oggi si usa dire invece che in italiano, a marcare con un’espressione così curiosa la distanza dal dialetto».
A prescindere da quanto voglia farne parte, la città interiore di Covacich si compone di un intreccio inestricabile di lingua, storia, luoghi e persone sotto il «culto di un passato comune, una specie di coperta asburgica».


La città interiore, Mauro Covacich, La nave di Teseo, 2017.

lunedì 11 settembre 2017

Qualcosa sui Lehman


Settecentosettantatre pagine intimidiscono, non c'è dubbio, scomodo portarsele in viaggio e in spiaggia. Che si tratti di un coffee table book? No, Qualcosa sui Lehmann non dispone di illustrazioni e fotografie tali da attrarre la curiosità dei distratti "sfogliatori" di casa o di passaggio in qualche sala d'attesa. Eppure il ponderoso volume di Stefano Massini, finalista al Premio Campiello 2017, non sfigurerebbe su qualche tavolino e spopolerebbe nei reading perché dispone egregiamente alla lettura ad alta voce. Intanto, è spassoso, grazie all'apparente leggerezza, è ricco di humour sottile, e poi è una ballata, perciò la lettura  corre spedita e veloce incalzata dal ritmo, dall'effetto sorpresa, dalle ripetizioni incrociate e sorprendenti, persino dall'evidenza matematica, reale o fasulla, di certe affermazioni funambolesche e furbissime.
Ma è un romanzo? Così è scritto in copertina, certo è che la narrazione si sviluppa in modo lineare raccontando la storia di una famiglia ebrea dalla metà dell'Ottocento alla seconda metà del Novecento, ma la formula linguistica scelta dall'autore  ricorda più l'Odissea che I miserabili e, per quanti conoscono fortuna e fine in bancarotta di Lehman Brothers, questa lettura sarà una piacevole scoperta.
Il ventiquattrenne Heyum Lehmann (con due "n", detto "la testa") sbarca sul molo number four di New York dopo quarantacinque giorni di traversata. Partito da Rimpar, Baviera, con la benedizione del padre, allevatore di bestiame, perché faccia fortuna e torni con molto denaro, si imbarca a Le Havre per un viaggio che lo trasforma da timido astemio a bevitore e campione di scommesse, con la convinzione di conoscere il mondo, «Baruch HaShem!» (Grazie a Dio!). Subito la semplificazione del nome in Henry e la cancellazione di una enne nel cognome e poi via, lontano dal freddo newyorkese, troppo simile a quello in Baviera, comincia con un emporio di tessuti e articoli vari a Montgomery. Raggiunto poi dai fratelli Emanuel ("il braccio") e Mayer ("la patata"), insieme creano l'avventura commerciale e finanziaria di cui si conosce. Sovrapponendo le loro vite per poco, e facendo succedere figli e nipoti, dall'Alabama arrivano a New York, passando dal commercio del cotone all'alta finanza, provando e riuscendo a fare affari con il caffè, il carbone, le ferrovie, l'arte e il cinema, alternando successi e rovinose perdite, come nel disastro del 1929. Una storia di famiglia dove le donne sono figurine ritagliate che vanno giusto bene per dare eredi e proseguire la dinastia, scelte in ragione della loro modestia e della famiglia di provenienza.
Eppure, ancorché romanzata e, probabilmente, resa con ironica bonomia, rimane una storia vera e dentro c'è tutta l'imprenditorialità geniale del mondo ebraico, la genesi dei self made men americani e la storia stessa degli Stati Uniti che si fanno caput mundi, o ci provano.

Qualcosa sui Lehman, Stefano Massini, Mondadori, 2017.

pubblicato su



domenica 10 settembre 2017

L'Arminuta




L’Arminuta, la ritornata, è una bambina di tredici anni che arriva-ritorna nella sua cosiddetta famiglia con una grossa valigia e un grumo di sconforto che le attanaglia il cuore. I genitori che l’hanno concepita, per una sorta di analfabetismo affettivo, l’hanno affidata a una cugina, con la promessa, poi disattesa, di mantenere un rapporto di qualche tipo. Senza andare troppo lontano e scandalizzarsi come fosse cosa d’altri tempi e d’altri luoghi e culture, fino a qualche decennio fa era uso abbastanza comune “cedere” un proprio figlio o figlia, se indigenti, a una famiglia più abbiente che se ne volesse occupare. Una pratica che non era sconosciuta nelle campagne e nelle periferie povere del nostro Paese.
«Nel mese dello svezzamento le due famiglie si erano spartite la mia vita a parole, senza accordi precisi, senza chiedersi quanto avrei pagato la loro vaghezza».
È la storia che narra Donatella Di Pietrantonio nel romanzo che si è guadagnato il Premio Campiello 2017, L’Arminuta, inchiodando chi legge alle pagine, perché scritto in una lingua speciale, fatta di carne e sangue. La carne di una bambina che soffre un doppio abbandono, il sangue-dolore di chi deve rinunciare, senza alcuna spiegazione, ai suoi affetti, alle sue amicizie, alle abitudini fatte di norme e piaceri per essere scaraventata in una famiglia estranea, in una casa affollata e povera, senza neppure un letto tutto suo, circondata da sconosciuti che dicono essere suoi  fratelli e genitori, senza volerlo, senza volerla. Solo Adriana, sorella inaspettata e generosa, la protegge e le insegna a muoversi in quell’inspiegabile fiume di emozioni in cui è stata gettata.
«Ogni sera mi prestava una pianta del piede da tenere sulla guancia. Non avevo altro, in quel buio popolato di fiati».
Solo dopo molto tempo riesce a capire perché la madre adottiva l’ha "restituita" e il motivo non salda la ferita, la riapre in un turbine di domande senza risposta. È un libro che fa riflettere sul senso stesso di adozione, prevalentemente vissuto come risposta a un bisogno di genitorialità, senza considerare l’altro soggetto: la creatura, la vita in gioco di una bambina, un bambino che non può essere rimandato indietro, come posta indesiderata, come una maglia troppo stretta.
«Non l’ho mai chiamata, per anni. Da quando le sono stata restituita, la parola mamma si è annidata nella mia gola come un rospo che non è più saltato fuori».
Eppure questa madre, con i suoi limiti, risulta meno crudele dell’altra. Leggere per scoprire come abbandono, sorellanza, resilienza si fondono in un libro di cui non ci si dimentica facilmente.

L’Arminuta, Donatella Di Pietrantonio, Einaudi, 2017.

Una recensione de L'Arminuta è pubblicata su




Premio Campiello 2017


Premio Campiello 2017

Al vaglio della Giuria dei Lettori (282 voti pervenuti su 300), si aggiudica il Supercampiello il romanzo
L'Arminuta, Donatella Di Pietrantonio, Einaudi.

A seguire, le recensioni dei primi tre libri classificati:
L'Arminuta, Donatella Di Pietrantonio, Einaudi, (con 133 preferenze).
Qualcosa sui Lehman, Stefano Massini, Mondadori, (99). 
La città interiore, Mauro Covacich, La nave di Teseo, (25).

Gli altri libri della cinquina:
La ragazza selvaggia, Laura Pugno, Marsilio, (12).
La notte ha la mia voce, Alessandra Sarchi, Einaudi, (13).
Con la discrezionalità che mi posso permettere (!) ho modificato l'ordine degli ultimi due libri perché, a mio sindacalissimo parere, il romanzo di Pugno è nettamente superiore all'altro.

A Rosetta Loy va il Premio Fondazione Campiello alla Carriera.
il Campiello Giovani 2017 ad Andrea Zancanaro con il racconto Ognuno ha il suo mostro.

Di solito, in questo ambiente, preferisco dare risalto ai testi, rispetto ad autori e autrici che già occupano, del resto, le pagine delle riviste e il web, ma qui faccio un'eccezione per Donatella Di Pietrantonio, conosciuta come autrice di Mia madre è un fiume (Elliot 2011), che avevo recensito su Combonifem Magazine.