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lunedì 24 luglio 2017

Sulle tracce di Artemisia


Un incontro inaspettato, a Napoli: Artemisia Gentileschi (1598), che lì visse e tenne scuola di pittura e accademia di disegno. Sue opere al Museo Nazionale di Capodimonte e a Palazzo Zevallos. Facile perdersi nei colori pastosi delle stoffe che rivestono le sue eroine, come Giuditta, interrogarsi sul sangue che macchia la tela, sotto la testa di Oloferne, (ri)conoscere la grandezza di un talento pittorico femminile, quindi raro, del Seicento.
Guida d'eccezione è Artemisia, di Anna Banti, libro sorprendentemente fresco e coinvolgente, benché pubblicato nel 1947. Una prosa «stupenda, mossa, varia[...], insaporita di dialetti», come la definisce nella postfazione Attilio Bertolucci. Libro difficile a definirsi perché non è un romanzo storico, anche se si può leggere come tale, ingolfandosi negli eventi di una vita non ordinaria, ma Banti si mette qui direttamente in gioco, richiamando emozioni e intessendo un dialogo immaginario con la sua protagonista, talvolta  apparendo restia a parlarne o impossibilitata a non farlo.
«Ora è per me sola che Artemisia recita la lezione, vuol provarmi di credere tutto quel che inventai e si fa tanto docile che persino i suoi capelli cambiano di colore, divengono quasi neri, e olivastro l'incarnato: tale io l'immaginavo quando cominciai a leggere i verbali del suo processo sulla carta fiorita di muffa».
Anna Banti (1895 - 1985), pseudonimo di Lucia Lopresti, autrice di  alcune importanti biografie di artisti, era interessata alla peculiarità del talento pittorico femminile e ne scrisse anche in un'altra sua opera, Quando anche le donne si misero a dipingere, dove incontriamo, tra gli altri, i ritratti di Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana e Vanessa Bell. In Artemisia accompagna la giovinetta orfana di madre, figlia di Orazio, pittore famoso, nel corso della sua vita, segnata da uno stupro e, insieme, dal processo che ne seguì. Più di una ferita per Artemisia, una voragine del cuore e degli affetti che l'accompagna sempre, prima costringendola a uno strano matrimonio di facciata destinato, negli anni, a diventare il simulacro di un amore, senza però donarle serenità alcuna o colmare la sua solitudine.
«Non so se di giorno o di notte, se lavorando o passeggiando, ma ad Artemisia, quella spina di Antonio perduto, e perduto per sua colpa, non dette mai tregua».
Immerso nelle sue opere, influenzate dalla corrente caravaggesca, il padre  Orazio appare distaccato, anche quando non lontano, incurante dei suoi figli, interessato solo alla precoce inclinazione artistica di questa figliola che farebbe qualunque cosa per compiacerlo. Ed eccola, Artemisia,  in partenza, per rincorrere eventuali committenti, o sfuggire all'ostilità del prossimo, che la riteneva troppo disinibita, alla volta di Firenze, Napoli, Genova, Londra.
Banti, nella nota di apertura, sostiene che Artemisia sia stata  «Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito fra i due sessi».
E, più avanti, considerando le sue coraggiose scelte di vita: «Questa donna che in ogni gesto vorrebbe ispirarsi a un modello del suo sesso e del suo tempo, decente, nobile e non lo trova».
Del suo peregrinare, tra commesse di lavoro, fughe, traslochi e spostamenti vari, resta un lascito di opere che raccontano soprattutto un dolore atroce elaborato nell'alfabeto dell'arte, di una bellezza cupa e smagliante, allo stesso tempo. Banti dichiara che non esistano prove certe della sua data di morte, mente Giulio Carlo Argan la attesta attorno al 1651. Forse un altro segno, una pennellata, perché a ricordare il suo nome non sia una lapide, ma quadri che valgono un viaggio, e non solo.



Artemisia Gentileschi è una personaggia che mi è particolarmente cara e ne ho scritto anche qui
invece il testo riportato sopra si può trovare anche sul blog Carte Sensibili




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